Il mistero e la magia di 6 siti italiani

I siti dove aleggia il mistero, l’immaginazione e la magia mi hanno da sempre affascinato. Oggi in queste pagine voglio parlarvi di luoghi carichi di forza dove l’esoterismo e la ritualità si mescolano sapientemente all’architettura. Questi luoghi sono intrisi di dettagli, scritte, dipinti che lanciano al visitatore, come fosse una sorta di sfida, messaggi da decifrare. Purtroppo normalmente è molto complicato riuscire a carpirne la vera essenza esoterica e solo pochi adepti sanno comprenderne a fondo il significato.

Nonostante ciò questi luoghi racchiudono un fascino intrinseco particolare che viene percepito da tutti, donando a coloro che li visitano un’energia particolare che si percepisce nell’aria reagalando emozioni e magia.


Palermo il palazzo della Zisa


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Il Palazzo della Zisa, dall’arabo “La splendida”, è una stupenda opera arabo-normanna la cui costruzione risale al 1165 iniziata sotto il regno di Guglielmo “il malo” e terminata dal figlio e successore Guglielmo “il buono”.

La Zisa sorge fuori quelle che erano le mura della città di Palermo, all’interno del parco reale normanno, il Genoardo, parola che deriva dall’arabo Jannat al-ar ovvero “giardino” o “paradiso della terra”.

Il Palazzo, capolavoro indiscusso di architettura arabo-normanna dal 2018 è Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO. Fu concepito tra il 1165 e il 1180 da Guglielmo I detto il malo (opera poi continuata da suo figlio Guglielmo II) che fece erigere questa dimora, desideroso di superare le gesta del padre Ruggero II, famoso per la costruzione di splendide regge.

Disposto su tre piani, un lungo vestibolo si trova al piano terra del palazzo dove al al centro si trova la grande Sala della Fontana, con ai lati una serie di ambienti di servizio. Il primo piano di dimensioni più piccole, probabilmente era l’alloggio delle donne. Il secondo piano, luogo di soggiorno privato estivo aveva un atrio grande centrale, una sala di belvedere e di due unità residenziali.

Il mistero e la leggenda si miscelano per svelare ai nostri occhi un affresco dipinto sotto l’arco di ingresso della Sala della Fontana.

Creature mitologiche disegnate sul soffitto che secondo la tradizione palermitana raffigurano dei diavoli, con il compito di custodire delle monete d’oro nascoste all’interno del Palazzo della Zisa.


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Si narra che due giovani innamorati El-Aziz, figlia dell’Emiro e, Azel Comel figlio del sultano, fuggirono dalla Libia verso la Sicilia per coronare il loro amore, contrastato dal padre di lui. Prima però di fuggire sottrassero al sutano una immensa ricchezza. Arrivati a Palermo fecero costruire il palazzo della Zisa per vivere il loro sogno nello sfarzo e nella ricchezza. Un giorno El-Aziz ebbe la triste notizia, recata da un uccello in volo, della morte dell’amata madre, suicidatasi a causa del dolore per la fuga della figlia. Lei sconvolta dal senso di colpa ne seguì la sorte, scegliendo di togliersi la vita. Azel Comel, reso folle dal suicidio della donna amata, preso dallo sconforto e dal dolore si gettò in mare, dando prima un sicuro riparo alle sue ricchezze tra le mura del Castello della Zisa sotto la protezione di un sortilegio.

Sulla volta della Sala della Fontana, apparirono dei diavoli che diventarono custodi del tesoro contro il saccheggio dei Cristiani e di quanti, nei secoli, avrebbero tentato di derubare il tesoro del figlio del Sultano.

Contare I diavoli sulla volta era reso impossibile per il loro continuo mescolamento, e non essendo mai esatta la conta di queste strane figure era impossibile trovare il tesoro. Ancor oggi in dialetto, quando i conti non quadrano vige il detto; “E chi su, li diavoli di la Zisa?” “E cosa sono, i d

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I diavoli della Zisa


La Scarzuola di Montegiove - Montegabbione (Tr)


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La residenza deve il suo nome per una capanna di scarza (pianta palustre) che, secondo la tradizione, San Francesco d’Assisi costruì nel 1218 durante uno dei suoi pellegrinaggi. In quel luogo San Francesco piantò una pianta di lauro e un cespuglio di rose, da dove miracolosamente sgorgò dell’acqua sorgiva.

In quel luogo nel 1282 venne edificata dal nobile Nerio di Bulgaruccio dei Conti di Montegiove, una chiesa con un piccolo convento francescano.


Il convento fu abbandonato dai frati nel Settecento, viene rilevato nel 1956 da uno dei maggiori architetti italiani del Novecento, il milanese Tomaso Buzzi.

Tomaso Buzzi, in gran segreto, fece costruire nel luogo del convento, una sua “città ideale”, con sette teatri e ispirata all’ideale umanistico in una composizione armonica tra natura e cultura.

Il percorso tracciato è pieno di simbolismi e si basa sul poema illustrato italiano “Hypnerotomachia Poliphili”: che risulta essere un viaggio iniziatico alla scoperta del Sé.

La visita alla città di Buzzi diventa un percorso di introspezione, di libera interpretazione ma non sempre facile.

Lo stesso Buzzi ha lasciato al visitatore la libera interpretazione, non dando volutamente una spiegazione della sua opera.


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Il complesso architettonico della Scarzuola è fantastico, pieno di valenze esoteriche dove vengono miscelate mitologia, spiritualità e simboli di ascendenza massonica.


Per poter capire a fondo il luogo bisogna lasciare fuori ogni senso razionale e lasciarsi andare, non facendosi toccare dalle parole talvolta scurrili e illogiche dalle guida, non seguendo più la propria mente ma lasciandosi condurre dall’istinto primordiale interpretando i simbolismi che si susseguono durante l’itinerario.

Rocchetta Mattei Grizzana Morandi (Emilia-Romagna)


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Rocchetta Mattei, castello costruito per volere del conte Cesare Mattei nella seconda metà del XIX secolo, nasce sulle rovine di una precedente rocca e vanta diversi stili architettonici, dal medievale al moresco.  

I lavori iniziarono nel 1850 e già nel 1859 la Rocchetta fu resa abitabile, diventando dimora stabile del Mattei che ci visse fino alla sua morte. Qui il Mattei insieme a un suo collaboratore, Mario Venturoli, mise a punto una discipina: Elettromiopatia (o Elettromeopatia). Questa disciplina che all’epoca era definita “cura miracolosa” era stata elaborata a partire dalle teorie omeopatiche di Samuel Hahnemann.

La voce si diffuse e al castello si susseguivano personaggi illustri che giungevano da ogni parte d’Europa per sottoporsi alle cure di Mattei, tra gli ospiti Ludovico III di Baviera lo zar Alessandro I e più tardi il Principe di Piemonte.

Il Mattei inizio a produrre le sue gocce e gli altri medicinali in grande stile, esportandole in tutto il mondo.

È stata la medicina alternativa più praticata al mondo dal 1870 al 1930 circa. La posologia, molto complessa era seguita da accorgimenti, aggiustamenti e modifiche che venivano

di volta in volta impartite dipendentemente dalla malattia da curare; il tutto veniva descritto in un Vademecum. La Medicina agiva sul “fluido elettrico” del corpo umano ristabilendo l’equilibrio e riconducendo la parte malata allo stato neutrale. Tutti i rimedi erano lavorati con formule e dinamiche segrete ed erano costituiti da ingredienti non tossici per l’organismo.

Ancor oggi, come venissero miscelati gli ingredienti e le pratiche curative adottate, sono avvolte nel mistero e custodite gelosamente dagli eredi.

Le cure del Mattei erano così famose e in voga che vennero pure citate da un personaggio di Fëdor Dostoevskij nel suo celebre romanzo “I fratelli Karamazov”:

“ Disperato, ho scritto al conte Mattei a Milano, che mi ha mandato un libro e delle gocce, che Dio lo benedica” .


Villa Palombara e la Porta Alchemica Roma (Lazio)


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“Sopra il tavolino del Laboratoro lasciò una carta in cui erano delineati e scritti vari enigmi. Il Marchese Massimiliano in memoria di un tale avvenimento, oltre varie Iscrizioni messe nella sala e nel muro esterno del Casino, nel 1680, li fece incidere in marmo, parte sul Portone posto sulla strada, la quale come si è detto conduce da S. Maria Maggiore a S. Giovanni in Laterano… parte intorno a una piccola Porta sulla strada, incontro a S. Eusebio; e questi enigmi ed Iscrizioni sono le Ricette per la manifattura dell’Oro, le quali niuno ha saputo interpretare, né saranno giammai interpretate…”.

Con queste parole Francesco Cancellieri, nel 1802 in un suo elaborato -

“Dissertazioni epistolari di G. B. Visconti e F.W. De La Barthe sopra la statua del discobolo scoperta nella Villa Palombara”

- descrive gli eventi che condussero il Marchese Palombara a far costruire una “Porta” ricca di simboli e iscrizioni.

La Porta Alchemica, chiamata anche Porta Magica, Porta Ermetica o Porta dei Cieli, è parte di un monumento costruito tra il 1655 e il 1681 da Massimiliano Savelli Palombara  marchese di Pietraforte, villa Palombara. L’edificio contava cinque porte, ma solo la Porta Alchemita è sopravissuta.

Il marchese Savelli di Palombara aveva un interesse per l’alchimia dalla sua frequentazione, sin dal 1656, della corte romana della regina Cristina di Svezia a Palazzo Riario (oggi Palazzo Corsini). Dopo che la regina si convertì al cattolicesimo, abdicò al trono di Svezia e passò gran parte del resto della sua vita a Roma, dal 1655 fino alla sua morte avvenuta nel 1689. Cristina di Svezia, appassionata cultrice delle scienze e dell’achimia (fu istruita da Cartesio), possedeva un avanzato laboratorio gestito dall’alchimista Pietro Antonio Bandiera. Palazzo Riario divenne sede di un’accademia che vanta nomi illustri del Seicento come il medico esoterista Giuseppe Francesco Borri, l’astronomo Giovanni Cassini, l’alchimista Francesco Maria Santinelli, l’erudito Athanasius Kircher.

Secondo una leggenda Porta Alchemica sarebbe stata edificata nel 1680 come celebrazione di una riuscita trasmutazione avvenuta nel laboratorio di Palazzo Riario.

La porta Alchemica è ricca di simboli come Il fregio sul frontone. Due triangoli sovrapposti con iscrizioni in latino rappresentano il simbolo dei Rosacroce come riportato in molti testi del Seicento. Si tratta del sigillo di Davide circoscritto da un cerchio con iscrizioni in latino, con la punta superiore occupata da una croce che collega a un cerchio interno, mentre la punta inferiore dell’esagramma è occupata da un oculus, simbolo alchemico del Sole e dell’oro.

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I simboli alchemici lungo gli stipiti della porta seguono, con qualche lieve difformità, la sequenza dei pianeti associati ai corrispondenti metalli Saturno - piombo, Giove-stagno, Marte-ferro, Venere-rame, Luna-argento, Mercurio-mercurio. A ogni pianeta viene associato un motto ermetico, seguendo il percorso dal basso in alto a destra, per scendere dall'alto in basso a sinistra, secondo la direzione indicata dal motto in ebraico Ruach Elohim.

La porta si deve quindi leggere come il monumento che segna il passaggio storico del rovesciamento dei simboli del cristianesimo esoterico verso il nuovo modello spirituale che si stava sviluppando nel Seicento.

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L’antro della Sibilla Cumana - Pozzuoli( Na)


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La somma Sacerdotessa Italica, che presiedeva l’oracolo di Apollo (divinità solare ellenica) e di Ecate (antica dea lunare pre-ellenica), era chiamata Sibilla Cumana ed era della città magnogreca di Cuma. La Sibilla svolgeva il suo compito presso il Lago d’Averno, in una caverna conosciuta come l’”Antro della Sibilla”. Qui la sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva i suoi vaticini su foglie di palma in esametrie e alla fine della predizione li lasciava mischiare dai venti provenienti dalle cento aperture dell’antro.

La leggenda narra che Apollo innamorato di lei le offrì qualsiasi cosa purché diventasse la sua sacerdotessa. La sibilla chiese in cambio ad Apollo l’immortalità, dimenticandosi però di chiedere anche l’eterna giovinezza. Invecchiando, quindi, le sue ossa e il suo corpo si rimpicciolirono a tal punto da prendere la dimensione di una cicala. Così fu messa in una gabbietta nel tempio di Apollo finché il suo corpo non scomparve e ne rimase solo la voce. Apollo sempre innamorato volle dare alla sua amata un’altra possibilità, se lei gli avesse concesso l’amore carnale, egli le avrebbe ridato la giovinezza. Non volendo rinunciare alla sua castità La Sibilla si rifiutò.

Anche Ovidio, nel libro XIV delleMetamorfosi” scrive che la Sibilla Cumana narra ad Enea del dono ricevuto da Apollo: tanti anni di vita quanti i granelli di sabbia che era possibile stringere nella propria mano, dimenticando tuttavia di richiedere l’eterna giovinezza, la Sibilla era destinata a un invecchiamento per lunghissimo nel tempo.

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La Sardegna viene spesso chiamata isola dei giganti per tre motivi legati a ritrovamenti archeologici: I giganti di Mont’e Prama, le Tombe dei Giganti e gli scheletri giganti di Pauli Arbarei.


Le statue di Mont’e Prama


Nel 1974 avvenne un’importante scoperta durante l’aratura dei campi nella zona di Cabras, sulla costa centro-occidentale dell’isola.

Oltre cinquemila frammenti trovati nei campi hanno portato alla ricomposizione di 16 statue di pugilatori, 6 di arcieri e 6 di guerrieri, un esercito di 28 statue colossali, alcune alte fino a 2 metri e mezzo e che pesano fino a 400 chili! Le statue, scolpite in arenaria locale, vengono datate a circa 3000 anni fa e fanno parte dell’epoca prenuragica. II particolare più enigmatico, oltre alle dimensioni, è la precisione dedicata ai dettagli geometrici, come a esempio gli occhi composti da cerchi concentrici perfetti.

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Mont’è Prama statua nuragica (900-700 a.C.) da Cabras - Statua del guerriero



Statue così grandi, belle e raffinate lasciano pensare che siano state realizzate da una civiltà avanzata, ricca e potente da realizzare un santuario monumentale funebre dedicato a dei guerieri ed eroi.

Un alone di mistero e leggenda avvolge i giganti di Mont’e Prama sin dal loro ritrovamento, anche perchè appartengono all’epoca nuragica di cui si conosce molto poco.

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Mont'è Prama statua nuragica (900-700 a.C.) da Cabras - Statua del boxer


Le Tombe dei Giganti (Sardegna)


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Tomba dei Giganti di Coddu Vecchju


Le tombe dei giganti sono monumenti e sono stati riutilizzati come tombe collettive in età nuragica, presumibilmente tra il Bronzo Antico e il Bronzo Finale (1800-1100 a.C.).

Presenti in diversi luoghi della Sardegna devono il loro nome alla fantasia popolare, poi preso dagli archeologi e arrivato fino a noi.  

Le costruzioni sono imponenti a base rettangolare absidata (cioè con la parte finale semicircolare), realizzate con grossi blocchi di pietra piantati nel terreno.

I sepolcri consistono in una camera funeraria lunga fino a 30 metri e alta 3 metri, che originariamente veniva ricoperta da un tumulo somigliante a una barca rovesciata. La parte frontale ha una forma di semicerchio, quasi a simboleggiare le corna di un toro, con al centro una stele alta fino a quattro metri, generalmente scolpita con alla base una piccola apertura.

I membri della tribù, del clan o del villaggio, rendevano omaggio ai morti della comunità, senza distinzione di rango, senza privilegi e senza offerte di valore. Col tempo le tombe vennero utilizzate come ossari nei quali depositare le ossa dei defunti.  

Molto probabilmente venivano scarnificate prima della sepoltura (sono state rinvenute tracce di questa pratica sulle ossa), e quando veniva raggiunto un numero consistente, avveniva la sepoltura. Nelle tombe dei giganti avvenivano dei culti collegati al dio Toro e alla dea Madre e secondo alcuni, la forma della costruzione richiama sia a una testa bovina sia a una partoriente. La morte era infatti legata alla nascita secondo il principio della rinascita.

Si possono trovare sparse in tutta la Sardegna con una particolare concentrazione nella parte centrale dell’isola. Di particolare interesse sono quelle di Capichera, Li Lolghi e Coddu Vecchju, nei pressi di Arzachena, quelle di Madau, vicino Fonni, quelle di Tamuli, cobetili mammellati, nei pressi di Macomer.


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Tomba dei Giganti di Li Lolghi

Gli scheletri giganti di Pauli Arbarei.


Numerose sono le testimonianze di ritrovamenti di ossa di giganti in Sardegna, ma i più numerosi sono stati fatti, secondo la popolazione che dice di esserne testimone, nella zona di Pauli Arbarei.

Luigi Muscas, oggi scultore e pittore ma all’epoca pastorello, racconta che un giorno, mentre pascolava le pecore, per ripararsi dalla pioggia entrò in un antro e qui vide uno scheletro di almeno quattro metri.

Corse in paese dal nonno a cui raccontò della scoperta e insieme tornarono nella grotta. Il nonno gli disse di essere già a conoscenza di ossa enormi e gli raccontò che diecimila anni prima, in zona” SA CONTISSA”, vi era un popolo di diecimila abitanti di enormi proporzioni tra cui nobili, dame di corte e un re.

Altri agricoltori della zona asseriscono di aver rinvenuto arando i campi scheletri umani di dimensioni straordinarie.

Si racconta che una stirpe antica di esseri altissimi giunsero sull’isola 12.000 anni fa e che fossero capaci di viaggiare tra terra e cielo, da dove si crede siano arrivati.

Un popolo molto evoluto, che insegnò agli isolani parecchie cose e che ha lasciato, a testimonianza dei loro viaggi, le “anelle” - grandi cerchi di ferro, del diametro da 30-40 cm in su - ritrovate numerose e che probabilmente servivano per l’attracco delle navi; la stranezza è che pur essendo di ferro questo non arrugginisce. Dei reperti rinvenuti consegnati dai contadini alle autorità locali non vi è più traccia, sono scomparsi e non vengono date spiegazioni.

Nell’area archeologica di Sant’Anastasia, presso Sardara, nella zona di Pauli Arbarei, affioramenti di ossa sarebbero stati visti da Muscas quando furono riesumate, le tibie erano lunghe almeno come un uomo alto 1 metro e settanta. Ora questa area è transennata e non è possibile accedervi. Tutti gli isolani che sono testimoni di questi ritrovamenti si domandano:

Perchè le autorità fanno di tutto per nascondere queste scoperte archeologiche che farebbero cambiare il corso della storia e aprire un varco verso la comprensione di un periodo di cui si conosce ben poco?


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In alto e in basso il sito nuragico di Genna Maria di Vilanovaforru in Marmilla